Author Archives: elenapianinz

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Sustainable Campuses as a key to future development

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Reports show that SDGs are not known by middle management, and CSR is not fully taken to its potential unless management buys in the moral purpose, and not only as the license to operate. Let’s start by investing in a sustainable campus, and seeding our closest future leaders. I recommend you register to the 2nd International Symposium on Sustainable Campus.

The program is very rich, and susan george and I will share a workshop introducing Theory U and some tools to facilitate ego to eco-system transformation.

Conference link, and registrations: https://www.haw-hamburg.de/en/ftz-nk/events/florence2018.html

When: Tuesday 11 December – 17:15 – 19:00 U.lab Social Innovation Hub training in University Campuses Elena Piani, and Susan George. Piani Projects and University of Florence, Italy

Where: University of Florence,  Aula Ostensio Del Giardino dei Semplici (Botanical Garden) – Via Micheli 3 Florence

Workshop brief: Building upon two decades of action research at MIT, Theory U shows how individuals, teams, organizations and large systems can build the essential leadership capacities needed to address the root causes of today’s social, environmental, and spiritual challenges. In this workshop we will share the five movements and seven essential leadership capacities reinforced through the U process, allowing a shift in consciousness from ego-system to eco-system awareness. The workshop will also involve the experimentation of some tools of the U.lab platform available on MOOC and in person programs. Further information is available at https://www.presencing.org/#/aboutus/theory-u and https://www.presencing.org/#/programs/course/landing-page/ulab_1x/at_a_glance

#sustainability #education #universities #csr #sdgs #circulareconomy #campus #sustainabledevelopment #presencing #ulab


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Italia & gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) – Il Rapporto Asvis 2018 ci racconta del progresso Italiano e che per ora l’Italia perde colpi

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Clicca qui per scaricare il Report ASviS 2018

Il 25 Settembre 2018, è stato festeggiato il terzo anniversario dell’Agenda 2030, e questo vuol dire che un altro anno è passato e c’è un anno in meno che ci separa dall’ambizioso traguardo del raggiungimento dei 17 SDGs.

A fare il punto di questo percorso per quanto riguarda il nostro paese ci pensa ogni anno il Rapporto ASviS la cui edizione 2018 è stata presentata oggi presso la Camera dei Deputati. La situazione italiana è stata analizzata tramite gli indicatori compositi elaborati dall’ASviS, con la metodologia AMPI (utilizzata anche dall’Istat). Per 15 Goal su 17 si fa riferimento ad un indicatore composito, a partire da 95 indicatori elementari, mentre per il Goal 13 e il Goal 17 si è usato un solo indicatore headline. Ecco di seguito la performance italiana rispetto agli SDGs.

Il valore base dell’Italia nel 2010 è 100, e da questo i valori salgono o scendono a seconda che vi siano stati, rispettivamente, miglioramenti o peggioramenti.

Rispetto al 2010, la situazione resta complessivamente stabile, poiché vi sono dei Goal in cui l’Italia è migliorata, altri in cui è peggiorata e altri ancora in cui i valori sono stazionari o si compensano tra di loro.

In particolare, dal 2010 al 2016, l’Italia:

È migliorata per:

  • Alimentazione e agricoltura sostenibile (Goal 2): diminuzione della popolazione in sovrappeso e aumento delle superfici coltivate biologicamente.
  • Salute (Goal 3): riduzione dei tassi di mortalità e degli incidenti stradali.
  • Istruzione (Goal 4): aumento delle persone laureate e diminuzione delle uscite dal sistema scolastico.
  • Parità di genere (Goal 5): miglioramento della partecipazione femminile alla vita politica e sociale, sebbene al di sotto della media europea.
  • Innovazione e infrastrutture (Goal 9): diffusione dell’uso di internet e aumento degli impiegati nel campo della conoscenza.
  • Produzione e consumo sostenibili (Goal 12): aumento del riciclaggio e diminuzione del consumo di materia.
  • Lotta al cambiamento climatico (Goal 13): riduzione delle emissioni per la crisi economica (con lieve peggioramento nell’ultimo biennio).
  • Cooperazione internazionale (Goal 17): aumento della quota dell’APS (Aiuto Pubblico allo Sviluppo) sul reddito nazionale lordo.

È peggiorata per:

  • Povertà (Goal 1): peggiora la povertà assoluta, con un alto numero di individui in famiglie a bassa intensità lavorativa.
  • Lavoro (Goal 8): alta disoccupazione, migliorata solo nell’ultimo biennio.
  • Disuguaglianze (Goal 10): aumento del gap tra reddito dei più ricchi e dei più poveri, nonostante l’aumento totale del reddito disponibile dal 2014.
  • Città e centri urbani (Goal 11): bassa qualità delle abitazioni, migliorata però nell’ultimo anno.
  • Ecosistema terrestre (Goal 15): aumento del consumo del suolo

È rimasta stazionaria per:

  • Acqua e strutture igienico-sanitarie (Goal 6): miglioramento fino al 2014, con un aumento di famiglie che mostrano fiducia nei confronti della potabilità dell’acqua del rubinetto, ma successivo peggioramento determinato dalla riduzione dell’efficienza delle reti di distribuzione dell’acqua potabile.
  • Energia pulita (Goal 7): aumento dell’utilizzo di energia da fonti pulite, con un peggioramento della situazione dalla ripresa economica.
  • Condizione dei mari (Goal 14): valori molto vicini a quelli del 2010.
  • Governance, pace, giustizia e istituzioni solide (Goal 16): la tendenza negativa fino al 2014 è poi migliorata grazie alla riduzione dei procedimenti civili.

Per Enrico Giovannini, Portavoce dell’ASviS, “si sono già persi tre anni per dotarsi di una governance che orienti le politiche allo sviluppo sostenibile. Il 2030 è dietro l’angolo e molti Target vanno raggiunti entro il 2020. Oltre all’immediata adozione di interventi specifici in grado di farci recuperare il tempo perduto sul piano delle politiche economiche, sociali e ambientali, l’ASviS chiede al Presidente del Consiglio di attivare subito la Commissione nazionale per l’attuazione della Strategia per lo Sviluppo Sostenibile, di trasformare il CIPE in Comitato Interministeriale per lo Sviluppo Sostenibile e di avviare il dibattito parlamentare sulla proposta di legge per introdurre il principio dello sviluppo sostenibile in Costituzione, al fine di garantire un futuro a questa e alle prossime generazioni”.

Oltre a queste richieste e alla fotografia di un’Italia ancora un po’ a rilento, tuttavia, il Rapporto ASviS presenta anche ciò che di buono è stato fatto tramite alcune leggi, norme, decreti e iniziative sociali. Afferma infatti Pierluigi Stefanini, Presidente ASviS: “il Rapporto è anche portatore di speranza perché dà conto delle iniziative di numerosi soggetti economici e sociali, nonché di tantissime persone, che stanno cambiando i modelli di business, di produzione, di consumo, di comportamento, con evidenti benefici, anche economici”.

(Fonte: https://www.info-cooperazione.it/2018/10/rapporto-asvis-2018-litalia-perde-colpi-sullo-sviluppo-sostenibile/ – Pubblicato il: 4 ottobre 2018)


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La sintesi della CSR

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La CSR è per alcune imprese è quella “pietra che è stata rifiutata, ed è divenuta la pietra angolare” (adattato da Atti 4,11), ma forse prima serve credere che se “gettiamo la rete al lato destra della barca, troveremo pesce” (adattato da Gv 21, 1-14).

Prima iniziamo a ragionare e compiere piccoli passi verso l’istituzione di buone pratiche in input e processi, maggiori le chance di output e di outcome, ovvero di un impatto ambientale-economico e sociale dell’essere impresa in un contesto specifico mondiale (vedi SDGs).

Vale la pena investire e non pensare che la CSR sia un costo, perché abbiamo la possibilità di essere competitivi sui prodotti e migliorare il posizionamento del brand, nonché di entrare in un sistema che alimenti il bene comune di cui facciamo parte dalla terra, all’individuo, alla società.

Sicuramente l’impresa ha obblighi legali di cosa portare a bilancio, ma c’è tutta un’altra parte volontaria che l’impresa sceglie di aggiungere. Su quest’ultima nota infatti, si è iniziato è iniziato a inserire come pratica, il bilancio integrato, ovvero un sistema di rendicontazione delle performance economiche, sociali, ambientali, sintetizzato all’interno di un’unica pubblicazione coincidente con il bilancio d’esercizio o il bilancio consolidato di una società. Rappresenta un’evoluzione della rendicontazione di sostenibilità.

La CSR è un’opportunità di innovazione e cambiamento culturale necessario per riportare il valore allo sviluppo economico e sociale, garantendo il connubio con l’ambiente.

 


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Esistono Certificazioni della CSR?

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Oltre che alle numerose certificazioni legate alla qualità rilasciate da enti come Bureau Veritas, DNVGL e TUV (basta pensare alla SA8000, ISO 9001:2008, ISO 14001 etc) che si possono inserire nei bilanci di sostenbilità d’impresa a dimostrazione dell’impegno dell’impresa verso i suoi stakeholders, esiste anche la ISO 26000 che però non è certificabile, ma bensì uno standard di riferimento e molto ambizioso.

Da due anni la Bocconi rilascia le certificazioni alle imprese performanti sulla CSR. Bocconi, J.P. Morgan Private Bank, PwC, Thomson Reuters e Gruppo 24 ORE hanno stretto un accordo triennale con la finalità di premiare le migliori aziende che creano valore economico, tecnologico, umano, sociale e ambientale, operando in modo complessivamente sostenibile.

E’ nato quindi il Best Performance Award, il premio annuale dedicato alle imprese italiane, che si distinguono per l’eccellenza nello sviluppo sostenibile inteso in un’accezione ampia, ovvero come la capacità di fare impresa garantendo la continuità aziendale (condizione necessaria) nel rispetto di:

· dimensione umana e ambientale (Green & Social),

· innovazione (Innovation & Technology)

· gestione economica (Value Added)

Poi ci sono gruppi di lavoro che aderiscono ad esempio al Global Compact Network Italia che si impegnano al raggiungimento degli SDGs, poi ci sono le certificazioni per i bilanci sociali migliori (Oscar di Bilancio FERPI) e tante altre opportunità di visibilità (reputation building) come l’ultimo che ho visto apparire “Green Carpet Fashion Award” e contestato perché percepito come “greenwashing”. Il trend è in crescita, dipende qual’è il nostro target di comunicazione, a chi vogliamo comunicare il nostro impatto socio-economico-ambientale, e quindi il nostro “purpose”, ovvero lo scopo dell’essere impresa responsabile e sostenibile.

 


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E tu quale società vuoi?

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I tempi di realizzazione sono lunghi perché viviamo nel cinismo, paura e giudizio. I processi sono complessi perché prevedono collaborazione di attori che non abbiamo mai coinvolto. Il ritorno economico non è immediato, ma i trend dimostrano che investire nella civiltà, e nel senso di cittadinanza attiva, è la via per un’impresa sostenibile.

Occorre avere un CSR manager, alle dirette dipendenze dell’alta direzione, che sia visionario, innovativo e consapevole delle sfide e opportunità del mercato diretto e indiretto e degli stakeholder, che non faccia solo auditing, ma che conosca il sistema impresa e l’impresa stessa, comprenda l’imprenditorialità e le normative, che sappia ascoltare e coinvolgere, che sappia relazionarsi e influenzare la strategia, dovrebbe avere un portafoglio (budget) e delega per esercitare un potere decisionale e non solo informativo o consultivo.

Nel tempo stimo che la CSR è una funzione che sarà assimilata nella visione strategica e cultura d’impresa, distribuita al middle management funzionale e divisionale, e partecipata dal personale dipendente e catena di fornitura.

Contribuire allo sviluppo sostenibile del territorio, della nazione e del pianeta, è una responsabilità che non spetta solo ai vertici, ma a tutti i livelli d’impresa, come anche a tutto l’ecosistema di cui esso fa parte.

 


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Il cause-related marketing o la beneficenza sono CSR?

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Il cause-related marketing consiste nel dedicare una percentuale (o anche un importo definito in partenza, ad esempio, 1 Euro etc.), dei ricavi delle vendite di un prodotto o servizio ad un ente not-for-profit, vuol dire avviare una campagna marketing che è dedicata a sostenere una buona causa. Il primo programma di cause related marketing (CRM) è stato realizzato nel 1983 dalla business unit Travel-Related Services di American Express, in occasione di un progetto a supporto del restauro della Statua della Libertà. In tale circostanza American Express promise di donare un penny per ogni transazione effettuata attraverso le carte di credito e un dollaro per ogni nuova carta registrata nei primi tre mesi del 1983, effettuando in tal modo una massiccia campagna di comunicazione diretta tanto ai clienti esistenti quanto a quelli potenziali. I risultati furono sorprendenti, American Express registrò un incremento del 28% nell’uso delle carte di credito rispetto allo stesso periodo del 1982 ed un notevole incremento delle nuove adesioni. Il contributo che American Express diede ad Ellis Island Foundation, per il restauro della Statua della Libertà, fu di 1,7 milioni di dollari.

Se portiamo questo esempio ad oggi, con le ultime statistiche possiamo stimare che avviare una campagna CRM, possa far si che le vendite aumentano del 50%, e che porti con se sempre dei benefici anche sociali.

Il ritorno economico per le imprese è doppio, sia l’aumento dei ricavi, ma anche la possibilità di poter prendere vantaggio di agevolazioni fiscali. Il Codice del Terzo Settore (D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117, art. 83), ha istituito una detrazione dall’IRPEF pari al 30% degli oneri sostenuti dal contribuente per le erogazioni liberali in denaro effettuate con modalità tracciabili o in natura, a favore degli enti del Terzo settore non commerciali, per un importo complessivo dell’erogazione non superiore a 30.000 euro in ciascun periodo di imposta. La detrazione è elevabile al 35% qualora l’erogazione liberale in denaro sia a favore di organizzazioni di volontariato. La detrazione è consentita, per le erogazioni liberali in denaro, a condizione che il versamento sia eseguito tramite banche o uffici postali ovvero mediante altri sistemi di pagamento tracciabili. È stata inoltre prevista una deduzione nei limiti del 10% del reddito complessivo dichiarato da enti e società o da persone fisiche.

Questa azione potrebbe essere quindi giudicata strumentale, ma è comunque anche morale. La mancanza di una più profonda moralità si presenta qualora l’impresa non dichiari quanti ricavi reali ha avuto, e magari non devolve in beneficenza tutto quello che prometteva, perché aveva preventivamente stabilito un minimo e non valutato il potenziale ritorno economico massimale per entrambe.

L’altra opportunità mancata, è di creare una partnership con le ETS (enti del terzo settore, ovvero le no-profit). Un partnership per definizione è un rapporto di media-lunga durata, e non un evento “one-off”. Vuol dire che l’impresa si impegna a rinnovare il progetto, operazione o collaborazione con l’ente no profit, e si cresce insieme. Si perchè anche il profit, ha molto da imparare dalle no-profit. Le profit possono aiutare le no-profit a organizzare la loro struttura (prestare ore pro-bono per migliorare la gestione delle risorse umane, aiutare con il bilancio economico, consulenze legali etc), assistere a capire come migliorare la comunicazione e il coinvolgimento dei volontari, reperire volontari nella sua impresa (e potrebbe riconoscere e anche valorizzare una prestazione di volontariato retribuita), donare dei suoi prodotti obsoleti per l’impresa (esempio PC o altro), ma non per l’uso della no-profit, o facilitare la messa in rete con altre imprese del territorio, a cui la no-profit può ulteriormente offrire dei suoi prodotti o servizi, specialmente se a scopo sociale. Qui si introduce un discorso più ampio, di filantropia strategica e di creazione di valore condiviso che dovrò esplicare in un successivo articolo.

 


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Qual’è il rapporto tra consumatore eco-equo e impresa responsabile?

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Ed è su quest’ultima nota che si apre lo scenario reale. È proprio il consumatore che sta portando, grazie alla sua propensione verso un rispetto ambientale e sociale, all’acquisto di prodotti o servizi da imprese che producono in maniera sostenibile.

Secondo la ricerca Nielsen Global Survey of Corporate Social Responsibility and Sustainability 2015 prestigioso istituto di ricerca a livello mondiale, i consumatori di tutto il mondo stanno privilegiando, sempre più gli acquisti da quei marchi che si impegnano per un cambiamento sociale e ambientale positivo. Il 66% dei consumatori dichiara di essere disposto a pagare di più per un brand “responsabile”, con un trend in crescita dal 55% del 2014 e dal 50% del 2013.

Gli italiani sono allineati con la media europea, con il 52% dei consumatori che riconosce un prezzo maggiore ai prodotti che offrono questo beneficio collettivo e si tratta di un trend in continua crescita, In Italia, peraltro, gli aspetti legati alla protezione dell’ambiente risultano più importanti di quelli legati all’impatto sociale: il 41% ha acquistato il prodotto perché la società produttrice è nota per essere amica dell’ambiente e il 38% per la confezione a basso impatto ambientale. I valori sociali sono distanziati, con il 33% di scelta per l’impegno sociale e il 31% per l’impatto diretto sulla propria comunità.

In breve, i consumatori stanno impiegando il loro potere d’acquisto per supportare brand che riflettono i loro valori e preferenze. Il consumatore richiede sempre più prodotti buoni: buoni per l’acquirente e buoni per la comunità e l’ambiente. La connessione con i consumatori è dunque fondamentale a questo livello, ed è essenziale per costruire la fedeltà del marchio in un panorama competitivo e dinamico con ritmi serrati.

Il trend in continua crescita rappresenta un’opportunità per i produttori, sia in termini di maggior potenziale di fatturato che per creare le basi per una crescita sostenibile dell’azienda stessa.

 


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Quali sono i ruoli: dell’imprenditore, del middle management, dei dipendenti, dei fornitori, degli investitori, del governo, del consumatore e dei diversi stakeholder?

L’imprenditore condivide con il top management la volontà di generare bellezza e ricchezza nell’eco sistema di cui esso fa parte, è dotato di carisma, genera consenso, e crea delle deleghe che sono funzionali all’istituzione e al funzionamento organizzativo.

Tale approccio viene anche intrinsecamente raccontato nel libro verde della commissione europea del 2010, che descrive la responsabilità sociale e ambientale come “il modo in cui le società integrano su base volontaria le preoccupazioni sociali e ambientali nella loro attività economica e nelle loro relazioni con le parti in causa”.

Il middle management, ha l’obbligo dirigenziale di presidiare la visione, la missione, i valori, cosa, come, quando vengono raggiunti gli obiettivi tattici dell’impresa. Tuttavia, una ricerca del 2017 svolta da Globescan e Frost&Sullivan ( White Paper CSR Europe ) indica che lo staff aziendale non conosce gli SDGs (Obiettivi di Sviluppo Sostenibile), e questo è una barriera enorme all’avanzamento della CSR e sostenibilità del pianeta. C’è molta formazione tecnica e anche esperienziale da svolgere su questa fascia di dipendenti che fanno da tappo culturale alla performance dell’impresa!

I dipendenti per definizione sono operativi, hanno l’obbligo di rispettare processi e norme che il top management e lo staff, ha creato per far funzionare l’impresa in maniera responsabile, e partecipare a questa cultura d’impresa. Saranno loro i primi ambasciatori del brand dell’impresa, ogni dipendente è un cittadino in rete, e può anche grazie all’uso dei social network contribuire alla reputazione e vendite dei prodotti e servizi della sua impresa. Qualora i dipendenti “sposano” i valori dell’impresa per la quale lavorando, è naturale parlare di senso di appartenenza e quindi di difesa verso l’azienda e non l’attacco che testimoniamo troppo spesso negli scioperi sindacali o crisi aziendali. Trovo utile sottolineare che la concorrenza si sta spostando sempre più sulla qualità delle risorse umane e non necessariamente verso il prodotto o servizio, perché senza personale adeguato non è possibile fare funzionare l’impresa, e la robotica, ha comunque bisogno di un coordinamento, che sia programmato digitalmente o manualmente.

I fornitori invece si trovano spesso, a seconda del settore, messi con le spalle al muro. Il fornitore è raramente di grandi dimensioni, e non ha molti mezzi economici per investire in processi o permettersi una formazione adeguata sulla sostenibilità, che sarebbe necessaria per l’attivazione delle stesse politiche sostenibili condivise e da rendicontare. Devo riconoscere che sono molte le imprese che ancora non sanno che esistono i fondi interprofessionali, ovvero non sanno che versano una parte delle loro tasse in questi fondi, e che possono godere di formazione gratuita.

Con l’assenza di un dialogo e partecipazione del fornitore visione dell’impresa cliente, è quasi impossibile che il fornitore sia mosso da un contratto morale, e trova nella richiesta di essere conforme, la parte strumentale della CSR, senza comprendere i benefici di attivare un approccio culturale al creare valore condiviso. Sarebbe molto interessante se l’impresa cliente iniziasse a vedersi come protagonista del cambiamento sostenibile, che creasse gruppi di studio e collaborazione tra fornitori. Sul singolo fornitore dovrebbe, a mio avviso, impegnarsi per conoscere il suo fornitore e allineare i valori. Nutrire una relazione, offrire un contratto di lungo termine, ridurre i tempi di pagamento, collaborare ad una formazione continua, lavorare e condividere buone pratiche e magari allargare le possibilità di network marketing. Chiaramente, anche il fornitore dovrebbe fare lo stesso, ovvero magari trovare sinergie verticali e orizzontali nel mercato e orientarsi ad un approccio più eco-sistemico.

Sarebbe interessante che l’impresa facesse da capofila con i suoi fornitori per incentivarli ad investire in impianti di efficientamento energetico alimentato da risorse sostenibili. L’investimento può essere anche “semplice”, come quello di negoziare una tariffa collettiva per la consulenza per studiare un impianto sostenibile. Non vuol dire quindi che è il cliente che paga per questo, ma che decide di collaborare con i suoi fornitori per diffondere una cultura possibile della sostenibilità.

In un altro passaggio del Libro Verde, troviamo il ruolo importante del governo utile a alimentare la spinta alla sostenibilità “norme più chiare in materia di informativa finanziaria possono contribuire ad una migliore valutazione delle società UE e permettere alle imprese e agli investitori di mettere l’accento sulle questioni di sostenibilità”, a questa voce si possono aggiungere incentivi, detassazione, ammortamenti e altre manovre fiscali.

Ci sono poi una varietà di stakeholders che influenzano la CSR di un’azienda, dal rapporto con i sindacati, agli investitori, alle università, alle ONG e tante altre.

Non ultimo, il consumatore ha un ruolo fondamentale. Nel libro di Yvon Chouinard, CEO di Patagonia, Let my people go surfing tra le 10 frasi più importanti ci condivide “if you want to change government, you have to aim at changing corporations, and if you want to change corporation, you first have to change the consumers. Whoa, wait a minute! The consumer? That’s me. You mean I’m the one who has to change?”. Con questo passaggio capiamo che forse la vera CSR è quella che ognuno di noi, proprio come consumatori, possiamo fare per alimentare un sistema che si impegni nel concretizzare processi e soluzioni per raggiungere uno sviluppo sostenibile. La CSR è ISR, ovvero responsabilità sociale individuale, si dovrebbe iniziare a parlare di USR, ovvero una responsabilità sociale delle Università per istruire alla sostenibilità globale e dirigersi verso una Responsabilità Sociale Universale.

 


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Qual’è la motivazione alla CSR?

La motivazione ad avviare un percorso della CSR è conseguentemente divisa in due approcci: quella strumentale e quella morale.

In quella strumentale troviamo la volontà di migliorare la reputazione, la motivazione e spirito di squadra, ottenere la licenza di operare, la riduzione di costi e rischi, e l’aumento delle vendite. In quella intrinseca invece, il rispetto dei diritti umani, il rispetto dell’ambiente, la tensione al bene comune, la giustizia ed equità.

La purezza della CSR è quando nasce da un imprenditore mosso dal profondo, consapevole dell’opportunità sociale e generativa del fare impresa, e fiducioso che nel rispetto ambientale e normativo c’è, grazie alla base sociale, la risposta di un’offerta del servizio/prodotto che è diverso, e che produce vantaggi economici-finanziari. I margini, non sono tutti finalizzati al puro profitto, sono sostenibili, ovvero permetteranno di attrarre nuovo capitale, e di alimentare il miglioramento del ciclo vitale dell’impresa perché saranno portatori di un cambiamento culturale necessario.